Viaggio parallelo a cura di Giuseppe Pavone e Vincenzo Velati
Ancora una volta fotografi pugliesi investono tempo e risorse, intellettuali e fisiche, per una ricognizione che, pur aspirando più al rigore della forma che alla esaustività della documentazione, dimostra nei fatti, in immagini prima di tutto, la fecondità di una linea di ricerca che la fotografia italiana si è data a partire dagli inizi degli anni ottanta del Novecento. Esiste infatti un paesaggismo fotografico italiano che ha il suo momento fondante nell'opera di Luigi Ghirri e nella mostra "Viaggio in Italia" del 1984 e si rivela, proprio col passare degli anni, non un singolo episodio culturale da archiviare rispettosamente nel novero delle stagioni culturali che furono, ma una proposta di lavoro attuale. Un'indicazione operativa che produce senso, consapevolezza e cultura per coloro che decidono, seriamente, di mettersi in gioco; siano essi uomini politici, capaci di tradurre le scelte culturali in attività istituzionali concrete, o professionisti, che riflettano sulle premesse e sulle conseguenze del proprio lavoro, o scrittori, che accettino di guardare foto e di farle agire nel loro immaginario o, infine, fotografi, che non vogliono cadere preda dei demoni autorali che dominano il campo delle arti visive. Così è per questa iniziativa monopolitana: le scelte (di culture e percorsi professionali) sono molteplici e dialoganti. Leggendo e meditando sui contributi degli autori, si avverte che le linee di lettura individuali delle immagini proposte dai fotografi non sono pretestuose e rapsodiche, ma radicate in analisi del territorio e della sua storia. Le autorità che convalidano possono essere tanto gli autori citati da Pavone e Selicato quanto le pregnanze linguistiche di Lino Angiuli, Carmine Tedeschi, Pietro Addante e Francesco Giannoccaro. Certo è che l'impegno conoscitivo di Pino Pavone, Stefano Pesce, Rocco Fazio e Nicola De Napoli riesce a funzionare da punto di coagulo di sensibilità e interessi diversi.
Guardando le foto ci si interroga su come riuscire a interpretare, senza forzature e appiattimenti, la spinta ad una pratica conoscitiva così impegnativa e rigorosa. Costa fatica decidere di dedicare giorni e giorni all'indagine su un territorio, accettando la disciplina di un tema obbligato, rinunciando alla facile tentazione della cartolina, agendo nei confronti del luogo comune visivo con la stessa determinazione dello scrittore che si vieta l'uso del preziosismo e della banalità. Ci si chiede anche, a volte, se l'impegno verso la forma rigorosa, la composizione essenziale e significativa sia un atto di rispetto verso la realtà o una vanitosa affermazione fine a se stessa, un voler mostrare la capacità di ordinare il caos, estetizzando anche il degrado, l'osceno abbandono del territorio. È però una domanda astratta, che non regge quando si passa alla osservazione diretta delle immagini. Perché le foto di questa mostra riescono a motivare il pensiero, ci spingono non a scoprire ma a rivedere i segni del territorio, le persistenze e le tracce della storia e del presente. La precisione delle inquadrature e la perfezione degli allineamenti non occulta una realtà che conosciamo tutti, anche nel suo quotidiano squallore, ma ci spinge a ragionare sulla possibile sopravvivenza di un senso nella organizzazione spaziale della nostra vita. Fotografando in questa maniera si legge il territorio in profondità, mettendo in luce quegli aspetti strutturali che nella disattenzione giornaliera diamo per scontati o che decidiamo inconsapevolmente di non vedere più. Per narrare il paesaggio non ci si può più affidare all'eccezionalità naturalistica e all'incanto idillico: la natura è in Puglia una individuabile storicità. Poche regioni come la nostra hanno visto, decennio per decennio, mutare così profondamente il paesaggio agrario con tecniche e coltivazioni sempre nuove e diverse. Si pensi a come abbiano inciso sulla visualità del nostro territorio l'abbandono del pascolo erboso, il diffondersi della coltivazione arborea, lo sviluppo del seminativo, la sostituzione delle norie con i pozzi artesiani, l'affermarsi di una coltivazione irrigua intensiva che permette la presenza di colori di specie vegetali finora inedite, lo spietramento della Murgia. La naturalità (quanto artificiosa poi) dei tendoni di uva si ricopre sempre più di reti grigiastre e i paletti di cemento sostituiscono i tronchi di castagno. Nelle nostre masserie fortificate le guardiole e le garitte diventano depositi residuali o, al più, elementi di attrazione agrituristica; i trulli vengono nascosti da capannoni prefabbricati e dalle colline delle selve si coglie come la distesa di verde della valle ceda ormai al balenio delle coperture di plastica. Se ci si abbandona alla nostalgia il passato diventa poetico e il presente un deposito di negatività, ma questo è un approccio troppo facile, non più perseguibile se si vuole fare ricerca: la denuncia fotogiornalistica ha i suoi luoghi deputati. l nostri fotografi vogliono un pubblico che ragioni con loro, rifiutano la fuga all'indietro e si confrontano proprio con la difficoltà del contemporaneo. Non per poetizzarlo e occultano ma per cercare, almeno sulla carta, quelle regole geometriche e compositive che ci sembrano presenti nel paesaggio del passato e che oggi invece sembrano impraticabili e assenti. Bisogna cercare una maniera per guardare positivamente al moderno o solo rifiutano? E le regole della fotografia non sono una analogia precorritrice di quelle regole politiche che dovrebbero guidare il governo del territorio? La scelta della composizione a pannelli compositi è felice: valorizza un linguaggio ricco di riflessività che permette un racconto disteso e annulla la ricerca di un punctum isolato. Lo sguardo deve essere qui indagante e procedere per confronti, la sua lentezza è la sua qualità. Siamo di fronte ad una operazione di gruppo collaborativo, cresciuto nel lavoro, interessante per la sua autentica e consapevole motivazione e che riesce anche a tradurre il tema comune in coerenza formale. L'iniziativa è esemplare: meriterebbe di non restare isolata e di trovare interlocutori pubblici che sappiano apprezzarla come un modello da riprodurre e potenziare. Vincenzo Velati