Un racconto dei luoghi
di Giuseppe Pavone
con un testo di Vincenzo Velati
Un racconto dei luoghi: la terra e il mare; due viaggi lungo due strade: la S.S. 407, Basentana, che attraversa la Lucania da Metaponto a Potenza, e la "strada detta della marina" che unisce due località a sud di Bari: Bari San Giorgio e Bari Torre a Mare. La prima corre parallela alla ferrovia e al fiume Basento, la seconda corre parallela alla costa adriatica..........................
Giuseppe Pavone
Guardando fotografie
Guardo le foto del mio amico. Ci diamo appuntamenti con la prospettiva di dedicare qualche ora a questo lavoro. Guardiamo insieme, silenziosamente. Le foto sono su un tavolo. Il sole batte su una tenda bianca, la luce è ottimale, da sinistra, naturale. Le immagini sono ferme e vicine, sopportano a lungo i nostri sguardi indaganti e critici. Cogliamo le sfumature dei colori e la sistemazione delle forme. C’è un ordine da regolare, il susseguirsi costruisce senso e racconto. Ogni tanto commentiamo la felicità di una inquadratura, la scelta di un punto di vista, la fortuna di un momento, il valore di un riflesso, un particolare dettaglio. La situazione è distesa e siamo concentrati. Ma non è solo una selezione. Per arrivare a queste sedute di riflessione di scelta e discussioni, senza difese di ruolo (il critico, il fotografo) abbiamo dovuto costruire reciproca fiducia. Premetto, per spiegarmi, che se me lo si chiede, e solo con questo stimolo, scrivo di fotografia o di arte, ma il piacere di scrivere nasce solo se c’è una intesa, un ragionare comune sulle necessità e sui linguaggi. Visitando una mostra il giudizio nasce, ex post, dalla possibilità di ricostruire il pensiero o la linea costruttiva delle immagini. Con Pino Pavone c’è una collaborazione decennale. Siamo partiti, come in tanti casi, con la richiesta di vedere foto per discuterne genericamente e abbiamo poi scoperto che era possibile confrontare comuni idee sul ruolo della fotografia e ritornare a vederci. Alcune delle cose che ci uniscono sono ben rappresentate in questa mostra.
Alla base di tutto l’idea che la fotografia, per avere un senso riflessivo generale, vorrei dire un senso “politico”, deve essere una fotografia di paesaggi e territori. Che sappia quindi rinunciare alle tentazioni dell’umanesimo, del tragico, del surreale, del lambiccamento cerebrale. Tentazioni che sono vere sirene: fanno appello all’urgenza drammatica dei sentimenti che trasudano dalle immagini dei corpi e dei volti umani, permettendo di perpetuare lo spaccio a buon mercato di pure ideologie. Il buonismo terzomondista giustifica la messa in posa di immagini fasulle e si accompagna ingenuamente alle ciniche narrazioni pubblicitarie. Rinunciando a queste cadute di intelligenza culturale ci si può saldamente ancorare alle punte più alte della fotografia italiana, quella degli anni ottanta, e cercare di tenere un livello di qualità figurativa e di linguaggio, senza il quale nulla vale nulla. Ragionare sull’ambiente degli uomini, sul mondo storico, è l’obiettivo da perseguire e questo significa dedicarsi con costanza e tenacia a una ricerca profonda. Lo si può fare viaggiando in cerca di paesaggi lontani o dedicandosi a riprendere impianti industriali o riprendendo solo le brocchette e le caraffe del proprio studio, ma la dedizione è indispensabile. Pino negli anni ha dimostrato di credere seriamente a questa scelta con decine di mostre e reportage territoriali e questa occasione testimonia la crescita della sua consapevolezza autorale.
Altro elemento che ci unisce è l’idea che la pratica fotografica possa essere una ricerca figurativa che goda di un mandato sociale percepibile, radicato nel territorio. Fotografare diventa una chiave per conoscere, ricostruire microstorie, datare emergenze, darsi ragione dell’esistenza di un paesaggio, analizzare tradizioni culturali, documentare l’organizzazione degli spazi comunitari e quindi riflettere sulla attività degli enti locali, spingere alla cittadinanza attiva, sensibilizzare gli amministratori.
Nei confronti di un mandato sociale così evidente e riconosciuto, anche se non nasce da committenze esplicite, la qualità formale delle immagini è legittimante: produce consenso e conoscenza specifica. Il fotografo che percorre questa strada non può inseguire solo l’estro del momento, l’accostamento curioso e straniante: deve impegnarsi in una produzione di immagini, sensate, coerenti e omogenee per qualità. Ci vuole appunto dedizione, tenacia, pazienza: si deve voler ritornare nei luoghi per migliorare una ripresa, scattare al momento giusto sfruttando la luce bassa e incidente dell’alba e del tramonto. Bisogna realizzare immagini senza rete, che non si devono né tagliare né manipolare. Adottare consapevolmente un codice etico del linguaggio è una scelta impegnativa. Vale per la scrittura, la poesia, il cinema come per la fotografia. Anzi per la fotografia, nell’epoca della convergenza al digitale e della perdita dell’aura della analogia, le possibilità elaborative post produttive, quasi infinite, impongono ancora di più rigore e onestà.
Certo la fotografia non è più quella analizzata da Peirce che, definendola come un indice in rapporto di contiguità fisica con la realtà, ne coglieva la straordinaria forza di referenza. Come ha ricordato Umberto Eco, Peirce aveva ancora sotto gli occhi i dagherrotipi, oggetti materialmente complessi, preziosi e unici. Né è più il clima degli anni ottanta quando Gianni Celati preferiva, al carattere menzognero della parola romanzesca, l’autenticità delle fotografie del suo amico Luigi Ghirri e lo accompagnava nelle esplorazioni nella Valpadana. Il dominio del digitale, la facilità delle riprese con strumenti che ognuno ha in mano in ogni momento, la possibilità di elaborare, trasmettere e pubblicare stanno cambiando tutto.
Indossare l’abito del rigore formale e processuale in questo momento è una scelta che deve essere esplicita. Renderla nota porta naturalmente a coltivare gli adepti; ne nascono momenti di formazione per i giovani, occasioni di incontro e dibattito; i talenti emergono. Quindi la fotografia acquisisce un carattere di pratica sociale che assume anche i caratteri della cittadinanza attiva.
Da questi incroci di idee e di incontri di letture nasce l’attività di Pino Pavone, i suoi libri e le sue foto, la sua cura dei giovani. In questo catalogo e nelle foto in mostra Pino cita espressamente i suoi riferimenti ideali, mostra le idee guida della sua poetica ed espone il suo lavoro in due situazioni diverse e contrastanti. Le immagini del paesaggio della Basilicata e del mare di San Giorgio sono quasi un contrapposto formale. Da un lato una terra che sembra ancora segreta e lontana, tale da poter essere scoperta ed esplorata da chiunque la percorra, e dall’altra un paesaggio dove solo tagliando i contesti e il degrado è possibile recuperare i frammenti di un incanto naturale che ha richiamato i suoi distruttori. Dice giustamente Pino che è un paesaggio da rifare. Oltre che a produrre belle immagini a questo, da noi, serve la fotografia: a ribadire la sempre attuale possibilità di migliorare il mondo.
Vincenzo Velati