Sguardi oltre
di Giuseppe Pavone
a cura di Vincenzo Velati
Riflessi, ombre, frammenti e non solo. Più che l'immagine la percezione periferica. Sguardi di sghembo, fuori e oltre il normale. Diverse visioni insomma: un campionario di situazioni apparentemente fuori fuoco, per cercare un senso intimo e personale. Tutto ciò in queste foto di Giuseppe Pavone tenacemente ricercate e inseguite per più di un anno a partire da una particolare impressione colta a Bitonto, nella chiesa di San Francesco la Scarpa in occasione della prima edizione di Bitonto Fotografia nel 2001, osservando una foto semicancellata dal riflesso sul vetro della montatura di un'altra foto esposta poco lontano. Vedi il caso era una delle foto di Luigi Ghirri, di quelle dedicate alle pietre di Bitonto lì esposte per la seconda volta dopo dieci anni dalla loro realizzazione. Continuava così ad operare la fecondità della lezione del maestro emiliano che proprio sul tema delle immagini disturbate da ombre e riflessi aveva operato agli inizi della sua carriera, negli anni intorno al set-tanta, fino a giungere alla proposta organica di questo tema, tra altri, nel volume "Kodachrome". Ghirri aveva voluto per il volume, che aveva curato personalmente con Paola Borgonzoni, ampi margini bianchi per dare evidenza percepibile a ciò che l'immagine con la sua inquadratura cancellava: la non limitabilità del reale.
La potenza della fotografia è affermata, in questa ricerca, proprio dalla frammentarietà che permette una analisi che colga nel contempo la realtà e le sue rappresentazioni. Ma per Pavone c'era anche altro: accanto alle immagini di Ghirri, in quella stessa occasione e nello stesso luogo, venivano esposte le foto di Mimmo Jodice dedicate a Bitonto, attente anch'esse ai riflessi e ai contesti stranianti e ironici. Partendo quindi dalla suggestione di una occasionale impressione visiva, dalle medi-tate immagini di Jodice e dall'esempio, lontano ma pregnante e rielaborato, delle immagini del primo Ghirri, Pavone ha voluto con molta tenacia inseguire il bagliore di quelle immagini doppie e costruire con esse un percorso personale. Lo ha motiva-to il desiderio di misurarsi con il mondo simbolico e ambiguo delle opere d'arte, più che con le immagini della vita reale e della sua rappresentazione.
La fotografia, si sa, ama il museo, le sue folle fluenti incantate, i dipinti e le sculture che si offrono contemporaneamente al fotografo e allo spettatore e permettono costruzioni in abisso. Anche Ghirri e Jodice, come tanti altri ma con autoralità assoluta, hanno dedicato molto del loro lavoro alle opere d'arte e ai musei. Hanno utilizzato squarci di luce e ombre per restituire il concreto "qui e ora" e per arricchire di senso opere e luoghi consumati da eccessiva frequentazione. Non si sono sottratte, naturalmente, a questa bulimica esposizione fotografica anche manifestazioni culturali di massa come la Biennale a Venezia o Dokumenta a Kassel, certamente più problematiche nella documentazione di un museo tradizionale. Pure con questi dati di partenza, in apparenza limitativi, Pavone è riuscito a produrre immagini originali: chi osserva le sue foto può notare che esse sono dedicate tutte a mostre d'arte contemporanea: scartata ogni esigenza documentaria è stata resa protagonista non l'opera in rapporto al pubblico ma il più sottile dialogo visivo - frammentario, effimero e transeunte - tra l'opera e il contesto della sua visione.
Come un interprete che in un concerto utilizzi non il suono ortodosso del suo strumento ma i rumori dei tasti, delle corde, dei mantici e dei pedali per richiamare il pubblico alla presenza fisica, concreta, dell'oggetto che fa musica così Pavone utilizza la camera fotografica e i suoi diversi obiettivi per ricercare intenzionalmente quei riflessi e quelle sovrapposizioni che normalmente si aborrono e si cercano di eliminare: riflessi, ombre, sfocature, disallineamenti, tagli, sovrapposizioni. Così facendo il fotografo, che agisce solo con l'atto della ripresa senza alcun intervento manipolatorio digitale, compie per l'opera d'arte un servizio che rifiuta il ruolo ancillare e interpreta invece uno dei caratteri fondamentali della modernità nel campo delle arti: l'attenzione al contesto, la messa in luce del rumore, semiologicamente inteso, contrapposto all'immagine vera e propria.
Per l'arte moderna, scriveva Meyer Schapiro nel 1957, "la fruizione dell'opera d'arte, analogamente alla sua creazione , si contrappone in pratica a quello che oggi s'intende per comunicazione. Ciò che si presenta come rumore secondo la moderna teoria della comunicazione, finisce per risultare, nel caso dell'arte, la sua interna necessità e il suo messaggio; anche se si tratterà sempre di un messaggio irriproducibile, nel senso che non è possibile tradurlo in parole né ripeterlo esattamente."
Pavone ha voluto porre al centro della sua ricerca questo rumore comunicativo che è però l'essenza concreta della sua visione delle opere e ha così creato una chiave di lettura duplice tanto per la fotografia, che non ripete semplicemente le indicazioni dei maestri come le opere qui presentate comprovano, quanto per le opere d'arte per le quali ipotizza realtà percettive non previste e arricchenti. Siamo di fronte ad una prova impegnativa, affrontata con lucidità e rigore, che convince e individua un percorso di lavoro da approfondire e sviluppare ancora.
Vincenzo Velati