Ritratto di un territorio
a cura di Giuseppe Pavone e Vincenzo Velati
Per chi fa ritratti di un territorio
Il testo di Pino Pavone per questa seconda iniziativa dedicata a Triggiano, (ma finché possiamo non chiamiamola "Triggiano fotografia") espone chiaramente le incertezze e i dubbi di chi si è avventurato per una strada non facile e incerta. La ricerca ha prodotto alla fine materiale che può sembrare incoerente ma che si dispone su due linee precise e che comunque permette un discorso sulla fotografia, i fotografi e il territorio. Ancora una volta, emerge da questo lavoro collettivo la difficoltà di una lettura unitaria del territorio, sia esso quello di una grande città o di un piccolo paese. È difficile ricondurre tutto ad unità proprio se si parte col piede giusto, se cioè sin dalla prima foto si stabilisce che non interessano l'aggiornamento dello stereotipo, la ripresa delle emergenze monumentali, la riproposizione dei luoghi comuni, la pigrizia della consuetudine. Se dietro l'atto di fotografare c'è la voglia dichiarata di mettersi in gioco, interrogandosi su cosa è degno di essere segnalato, su cosa realmente è importante, allora la fotografia diventa una maniera per dare senso al proprio essere in un luogo. In queste foto il desiderio dell'impegno e della autenticità c'è ed è percepibile.
Certo sono diverse le motivazioni e le qualità delle opere: Roberto Salbitani, Pino Pavone e Michele Roberto partono da una consapevole cultura che si pone come dato. Accettano apertamente la sfida di cimentare ancora una volta le loro capacità di essere autori in un contesto quotidiano, privo di drammatici punti di interesse, di quelli che polarizzano attenzione e sguardi. Osservando le loro opere ci si pone nella dimensione mentale di valutare dove finisce l'impronta dell'autore, con i suoi interessi linguistici e culturali, e dove invece inizia la particolarità del territorio. O, ancora, ci si incuriosisce a indagare, inevitabilmente, come anche questa volta si siano tracciate mappe diverse di un unico territorio simultaneamente esplorato. Osservando le foto intessiamo un dialogo intimo con le immagini, alla ricerca di echi di sensibilità compositive ed emozionali che pensiamo già di conoscere e che ci aspettiamo di confermare o, forse, ridisegnare. Ci soccorre, quando c'è, la parola dell'autore ma il successo, la sintonia, non è scontato e solo la mostra, quando potremo vederla nel suo insieme, convaliderà le scelte e permetterà a chiunque di saggiare la qualità delle opere, apprezzando l'analisi personalistica e sociale di Roberto Salbitani, il rigore compostivo di Michele Roberto, la tenebrosa ricerca luministica, ai limiti del simbolico, di Pino Pavone.
Diverso il caso delle foto degli studenti e della giovane Tonia Caldarulo. In queste sezioni si deve valutare l'impegno nel condurre una operazione analitica e conoscitiva che impone parametri di giudizio diversi: non tanto individualisticamente qualitativi quanto valorialmente politico-culturali. Fotografare il proprio territorio è qui operazione di prassi sociale; lo sguardo attrezzato, che fissa il momento di un luogo, è anche una assunzione di responsabilità, un prendersi cura dei beni comuni, uno stabilire un punto di partenza che resta nella memoria. Partecipando coscientemente alle operazioni preparatorie della mostra si registrano metadati che connoteranno e accompagneranno per sempre le immagini anche nel ricordo del loro autore, qualificandole come intervento di memorazione post quem, pietre miliari dello sviluppo della immagine del territorio.
I valori terapeutici della fotografia, per gli individui e per gruppi sociali ristretti, sono da tempo ben noti e studiati. Libri profondi e suggestivi documentano le valenze quasi taumaturgiche della riflessione sulle immagini di sè o, anche, sulle foto significative dei grandi maestri. La fototerapia è però una pratica privata. Quel che occorre qui è una presa di coscienza collettiva del valore democratico, e attivamente tutelante, di una campagna fotografica condotta con entusiasmo da una massa di giovani nel proprio quartiere, là dove vivono.
Non si tratta quindi di mettere in luce particolari abilità o di scoprire talenti da selezionare. In questo caso, in maniera esemplare, la valenza è collettiva: si dà senso positivo ai vissuti e agli ambienti di una fascia generazionale, valorizzando la presa di coscienza del luogo, la percezione attiva e positiva degli spazi vitali, il senso della appartenenza e della comunità. Se si stabilisce il contatto, se si riesce a dare valore alla quotidianeità forse si riuscirà a trasferire l'attivismo fotografico in pratiche di cittadinanza attiva, in partecipazione operante e si darà un senso alto e conoscitivo all'atto del fotografare. Se poi da questa coscienza alta del proprio agire immaginifico nascerà una leva di giovani autori sapremo come rallegrarcene e chi ringraziare.
Vincenzo Velati
Il testo di Pino Pavone per questa seconda iniziativa dedicata a Triggiano, (ma finché possiamo non chiamiamola "Triggiano fotografia") espone chiaramente le incertezze e i dubbi di chi si è avventurato per una strada non facile e incerta. La ricerca ha prodotto alla fine materiale che può sembrare incoerente ma che si dispone su due linee precise e che comunque permette un discorso sulla fotografia, i fotografi e il territorio. Ancora una volta, emerge da questo lavoro collettivo la difficoltà di una lettura unitaria del territorio, sia esso quello di una grande città o di un piccolo paese. È difficile ricondurre tutto ad unità proprio se si parte col piede giusto, se cioè sin dalla prima foto si stabilisce che non interessano l'aggiornamento dello stereotipo, la ripresa delle emergenze monumentali, la riproposizione dei luoghi comuni, la pigrizia della consuetudine. Se dietro l'atto di fotografare c'è la voglia dichiarata di mettersi in gioco, interrogandosi su cosa è degno di essere segnalato, su cosa realmente è importante, allora la fotografia diventa una maniera per dare senso al proprio essere in un luogo. In queste foto il desiderio dell'impegno e della autenticità c'è ed è percepibile.
Certo sono diverse le motivazioni e le qualità delle opere: Roberto Salbitani, Pino Pavone e Michele Roberto partono da una consapevole cultura che si pone come dato. Accettano apertamente la sfida di cimentare ancora una volta le loro capacità di essere autori in un contesto quotidiano, privo di drammatici punti di interesse, di quelli che polarizzano attenzione e sguardi. Osservando le loro opere ci si pone nella dimensione mentale di valutare dove finisce l'impronta dell'autore, con i suoi interessi linguistici e culturali, e dove invece inizia la particolarità del territorio. O, ancora, ci si incuriosisce a indagare, inevitabilmente, come anche questa volta si siano tracciate mappe diverse di un unico territorio simultaneamente esplorato. Osservando le foto intessiamo un dialogo intimo con le immagini, alla ricerca di echi di sensibilità compositive ed emozionali che pensiamo già di conoscere e che ci aspettiamo di confermare o, forse, ridisegnare. Ci soccorre, quando c'è, la parola dell'autore ma il successo, la sintonia, non è scontato e solo la mostra, quando potremo vederla nel suo insieme, convaliderà le scelte e permetterà a chiunque di saggiare la qualità delle opere, apprezzando l'analisi personalistica e sociale di Roberto Salbitani, il rigore compostivo di Michele Roberto, la tenebrosa ricerca luministica, ai limiti del simbolico, di Pino Pavone.
Diverso il caso delle foto degli studenti e della giovane Tonia Caldarulo. In queste sezioni si deve valutare l'impegno nel condurre una operazione analitica e conoscitiva che impone parametri di giudizio diversi: non tanto individualisticamente qualitativi quanto valorialmente politico-culturali. Fotografare il proprio territorio è qui operazione di prassi sociale; lo sguardo attrezzato, che fissa il momento di un luogo, è anche una assunzione di responsabilità, un prendersi cura dei beni comuni, uno stabilire un punto di partenza che resta nella memoria. Partecipando coscientemente alle operazioni preparatorie della mostra si registrano metadati che connoteranno e accompagneranno per sempre le immagini anche nel ricordo del loro autore, qualificandole come intervento di memorazione post quem, pietre miliari dello sviluppo della immagine del territorio.
I valori terapeutici della fotografia, per gli individui e per gruppi sociali ristretti, sono da tempo ben noti e studiati. Libri profondi e suggestivi documentano le valenze quasi taumaturgiche della riflessione sulle immagini di sè o, anche, sulle foto significative dei grandi maestri. La fototerapia è però una pratica privata. Quel che occorre qui è una presa di coscienza collettiva del valore democratico, e attivamente tutelante, di una campagna fotografica condotta con entusiasmo da una massa di giovani nel proprio quartiere, là dove vivono.
Non si tratta quindi di mettere in luce particolari abilità o di scoprire talenti da selezionare. In questo caso, in maniera esemplare, la valenza è collettiva: si dà senso positivo ai vissuti e agli ambienti di una fascia generazionale, valorizzando la presa di coscienza del luogo, la percezione attiva e positiva degli spazi vitali, il senso della appartenenza e della comunità. Se si stabilisce il contatto, se si riesce a dare valore alla quotidianeità forse si riuscirà a trasferire l'attivismo fotografico in pratiche di cittadinanza attiva, in partecipazione operante e si darà un senso alto e conoscitivo all'atto del fotografare. Se poi da questa coscienza alta del proprio agire immaginifico nascerà una leva di giovani autori sapremo come rallegrarcene e chi ringraziare.
Vincenzo Velati