Bisogna riflettere su come ormai sia impossibile descrivere con le parole la realtà: quella continua e incessante stratificazione di oggetti, forme, scarti, rifiuti che la nostra vita attuale produce. Un tempo le parole potevano individuare e connotare un paesaggio: dire "marina", "deserto", "spiaggia" era possibile e leggibile. Ne nascevano idee precise, generi figurativi. Oggi la generalità del linguaggio simbolico non regge: nulla più è dicibile per esso, se non genericamente. Anche l'immagine d'invenzione annaspa e gli artisti l'hanno abbandonata ai deliri del sogno: per dar corpo più autentico alle loro idee, come un tempo usarono i surrealisti, ricorrono (ingenuamente) alla certificazione della fotografia.
La fotografia oggi regna e solo con essa, per il suo statuto referenziale, è possibile materializzare la moltiplicazione del soggetto osservante, la intrinseca complessità del nostro quotidiano.
La periferia, deposito del particolare e dell'informe, è quindi di per sé centrale: è indescrivibile a parole ma dà figura al presente. Dalla "Città che sale" di Boccioni in poi. Le foto di una città o sono cartoline o devono misurasi con la banalità inaspettata e quotidiana della visione particolare.
Pino Pavone da tempo conduce i suoi amici fotografi in questi reportage ironici, dolenti, stupefatti o nostalgici: ogni sguardo è legittimo e, anche se muove dal ricordo, è costretto a guardare il presente. Convince, anche in questa occasione, la spinta a dare un senso formale alle foto e alle loro composizioni: e questa è la scommessa di ogni autore. Vincenzo Velati