Lavori in corso
di Giuseppe Pavone
a cura di Vincenzo Velati
Chi è del mestiere non bada alle vetrine: il fotografo che visiti una mostra va all'essenziale, apprezza la scelta delle cornici e la correttezza delle luci, guarda ai supporti per come sostengono la profondità delle immagini, ma non tarda ad entrare nel cuore del discorso figurativo per soppesarne le componenti e le novità, dialoga con l'autore.
Con simile atteggiamento anche il lettore operaio, scriveva Bertolt Brecht in anni lontani, chiede alla storia non i nomi dei grandi ma: "...dove andarono i muratori, la sera che terminarono/ la Grande Muraglia?/ La grande Roma/ è piena di archi di trionfo. Chi li costruì?...:
Echi che nascono spontanei osservando questa nuova organica mostra di Pino Pavone. Visitando per lavoro e studio le città italiane, guarda al paesaggio e ai monumenti con l'occhio dell'ingegnere, legge i segni del cantiere, nota il distacco tra la prosaicità dei materiali inerti e lo splendore virtuale del progetto che decora le recinzioni, promettendo ai passanti nitide volumetrie, solidi archi e rinnovate murature.
Tra il disordine presente e la compiutezza futura le tracce geometriche, le guide per le opere, le assi di contenimento, le squadrature costituiscono una griglia progettuale che inquadra il divenire dello spazio e cattura le tentazioni compositive del fotografo.
Ma questo indulgere sui luoghi in costruzione è solo la concessione a una esperienza di mestiere? O è anche la ricerca di una coerenza di contenuti che giustifichi una mostra e motivi un titolo? O forse l'insistenza sui limiti dei cantieri, le reti di contenimento, i fili e le catene che delimitano gli accessi e gli sguardi alludono ad altro? Le nostre città, le loro anime, sono veramente percepibili? O sono nascoste e impedite? Perché noi che guardiamo siamo, con il fotografo, sempre di qua, e gli alberghi famosi, le piazze storiche, i monumenti sono luoghi lontani e irraggiungibili? Solo uno squarcio in una rete scura, una luce notturna, un riflesso abbagliante ci permettono di percepire una bellezza lontana.
Può essere il cantiere una metafora del nostro sguardo presente? Ci sono indizi di ciò in queste foto, dove anche un'ombra può segnare un limite da non valicare.
Non so in realtà se regga una lettura così simbolica, né però la suggestione interpretativa svanisce, se penso razionalmente, riduttivamente.
Mi accorgo che non posso escludere una lettura metaforica delle immagini. Pavone non è un moralista, ma i significati possibili non possono essere autenticati.
Da molti anni la fotografia d'autore afferma l'impossibilità di sguardi che ripercorrano e ripropongano le città così come sono definite nella storicità consoli-data delle loro immagini abituali.
Pavone si dimostra qui interessato a una chiave unitaria di penetrazione nel corpo delle città, che sfugga al già visto e al luogo comune della cartolina. Lo interessa il contesto della visione, che è segno distintivo dello sguardo con-temporaneo: un contesto non solo materiale (il cantiere, appunto) ma anche culturale (il già fotografato).
Riflettendo sulla mostra si intende che "lavori in corso" sono tanto quelli ripresi nelle foto quanto quelli che si leggono tra un'immagine e l'altra; un po' come in un testo poetico i significati reali non sono evidenziati solo dai referenti ma stratificati tra le righe, nella struttura compositiva e metaforica del discorso. Non ci deve far velo in questa mostra il tentativo di Pino di nascondersi, consapevolmente, dietro il concreto interesse della sua professione per i cantieri e le infrastrutture.
Il centro del discorso è altrove: le ferite urbane dei cantieri, le bende di squillante arancione, le strisce bianco-rosse di segnalazione servono per definire campi da gioco in cui avviare un sottile rimando linguistico ad altre immagini, ad altri spazi, a sguardi già codificati.
Quel che appare è un dipanato discorso, immagine dietro immagine, non tanto sulla fotografia in sé, che è un interesse non centrale in questa occasione, ma un confronto con altri fotografi di città. Segnatamente con i maestri italiani ed europei della foto di paesaggio e quelli più giovani che discendono da "Viaggio in Italia" e da Luigi Ghirri.
Pavone sta affinando ulteriormente un suo linguaggio autorale, che non si fonda su contenuti privilegiati né su stilemi tecnici, da applicare in ripresa o in camera oscura.
Si confronta da tempo con i suoi interlocutori ideali, studia le opere e i libri di Basilico, Barbieri, Guidi, Jodice, Fossati, Mulas ma non dimentica Evans e i maestri più antichi.
Emerge con pienezza di risultati, ed è almeno la seconda volta nel suo curricolo, la sua capacità di lavorare non solo sulle immagini singole ma anche sulla composizione di più opere per costruire un senso plurale, grazie ad un insieme fatto di scarti e consonanze cromatiche, compositive e luministiche.
Da queste pluralità non nasce un racconto, una definizione di situazioni psicologiche narrative o una zoomata su dettagli.
Le immagini dialogano formalmente tra loro e nella nostra mente; così composte le seguiamo e le vediamo disporsi una dietro l'altra, risuonando di suggestioni citazionistiche o culturali e assumendo una continuità che è fatta appunto di colori e situazioni, punti di vista, spazi e luci, composizioni di linee e di ombre.
Le foto qualche volta indulgono visibilmente al confronto con altri autori ma trovano, nella costruzione delle immagini plurime, una cifra originale che mi sembra l'acquisizione più convincente e promettente degli ultimi lavori di Pavone, capace di dare unitarietà culturale e simbolica all'intera mostra.
Se poi qualcuno ritenga che quanto ho scritto non corrisponda alla semplicità (apparente) delle immagini, cedo io alla tentazione di indicare e lo invito a soffermarsi su di esse con attenzione e a saper vedere dove, alla maniera di Hitchcock, si nasconde veramente l'autore.
Vincenzo Velati