Lama San Giorgio - dalla Terra al Mare
a cura di Giuseppe Pavone e Vincenzo Velati
Ci sarà una ragione necessaria se ormai da cinque anni Pino Pavone riesce a mobilitare, una volta per anno, un gruppo di intelligenze visive per farle misurare con il territorio di Triggiano e con gli statuti della fotografia. Io partecipo a questa ricerca da osservatore e qualche volta da critico amico; rifletto sulle immagini che mi si offrono allo sguardo per tentare di tracciare una linea di dialogo continua tra la realtà del luogo e la tensione rappresentativa degli autori. Come ben sanno i viaggiatori consapevoli la scrittura e la produzione di immagini nascono, prima ancora che da una esigenza documentaria, dalla necessità di dotarsi di una chiave di lettura che apra le porte della percezione profonda e sistematica. Proprio chi riesce a separarsi dalla voglia di imporre agli altri la realtà nella sua essenza (parola pericolosa, da tempo) coltivando invece pienamente la parzialità della propria ricerca, può forse conquistare una dimensione autorale che aggiunge senso e valenze semantiche a quella realtà che sfugge a chi invece la voglia inseguire troppo da vicino banalizzandola.
La libertà del fotografo è però impegno a rispettare regole (scritte e disperse, inconsce ed imperative) di composizione che si vivificano solo quando emergono naturalmente e non quando si impongono astrattamente. Deve però liberarsi ed agire una competenza immaginativa e poetica autentica, irriducibile a pura prescrizione, cerebralità astrusa.
Il territorio è in questo percorso solo pretesto ? Non credo. Il rischio però è presente e talvolta si avverte la gratuità dell’operare, la mancanza di dialogo, tra luoghi e racconti.
Nel nostro caso ancora una volta, per paradosso, l’umiltà del paesaggio favorisce una intensità formale che rimette in sintonia la documentazione e il linguaggio. La mancanza di orrido e di asprezze sublimi costringe alla profondità formale e favorisce le individualità.
Nicola Amato coglie fiammeggianti episodi di vita vegetale, sottolinea aspetti di vitalismo ribelle, riprende individui naturali che si protendono, curve cementizie che aspirano alla esplosione formale.
Per Stefano Di Marco la lama è il luogo del confronto dell’organico con il limite, la squadratura geometrica, l’inserto delle colonne di acciaio e dei campi di attenzione dei cartelloni pubblicitari, lo scarto verticale del biancore roccioso che rompe il piano di campagna.
Rocco Fazio esalta le stratificazioni delle rocce calcaree sullo sfondo degli alberi e dell’orizzonte, quasi alla ricerca di un taglio di paesaggio veramente naturale, privo di elementi artificiali e disturbanti.
Al contrario Carlo Garzia insegue il costruirsi di forme artificiali: dal sentiero che taglia il prato alla scala pietrosa che percorre un muro. Giganteggiano tronchi cementizi in una presenza sempre più ridotta e parziale della natura. Anche l’immagine del cielo è rotta, frammentata, impedita. E la composta calma delle forme nasce dal punto di mira del fotografo che genera sensi ossimori e inserti stranianti.
Pino Pavone analizza il simbolismo cartografico e i segni del tempo sulla mappa metallica che definisce il percorso della lama e lo sancisce come vero paesaggio. Si concentra su frammenti pestati, cumuli di rifiuti, butti, sedimenti. Il mare è lontano, una presenza quasi secondaria nel profilarsi simbolico della lama come episodio marginale del territorio. Eppure l’insieme di pozzanghere asfalto, alghe riesce a trasfigurarsi idillicamente
Michele Roberto sembra invece attratto dal gioco delle forme, come per un amorevole informalismo che privilegia l’eleganza dell’immagine pura.
Aldilà dei tentativi degli autori prevale però una sensazione di impasse: il paesaggio non riesce ad emergere con una identità forte e viene da pensare che l’immagine del presente dovrà cedere ai progetti di una tutelata ricostruzione.
Vincenzo Velati
La libertà del fotografo è però impegno a rispettare regole (scritte e disperse, inconsce ed imperative) di composizione che si vivificano solo quando emergono naturalmente e non quando si impongono astrattamente. Deve però liberarsi ed agire una competenza immaginativa e poetica autentica, irriducibile a pura prescrizione, cerebralità astrusa.
Il territorio è in questo percorso solo pretesto ? Non credo. Il rischio però è presente e talvolta si avverte la gratuità dell’operare, la mancanza di dialogo, tra luoghi e racconti.
Nel nostro caso ancora una volta, per paradosso, l’umiltà del paesaggio favorisce una intensità formale che rimette in sintonia la documentazione e il linguaggio. La mancanza di orrido e di asprezze sublimi costringe alla profondità formale e favorisce le individualità.
Nicola Amato coglie fiammeggianti episodi di vita vegetale, sottolinea aspetti di vitalismo ribelle, riprende individui naturali che si protendono, curve cementizie che aspirano alla esplosione formale.
Per Stefano Di Marco la lama è il luogo del confronto dell’organico con il limite, la squadratura geometrica, l’inserto delle colonne di acciaio e dei campi di attenzione dei cartelloni pubblicitari, lo scarto verticale del biancore roccioso che rompe il piano di campagna.
Rocco Fazio esalta le stratificazioni delle rocce calcaree sullo sfondo degli alberi e dell’orizzonte, quasi alla ricerca di un taglio di paesaggio veramente naturale, privo di elementi artificiali e disturbanti.
Al contrario Carlo Garzia insegue il costruirsi di forme artificiali: dal sentiero che taglia il prato alla scala pietrosa che percorre un muro. Giganteggiano tronchi cementizi in una presenza sempre più ridotta e parziale della natura. Anche l’immagine del cielo è rotta, frammentata, impedita. E la composta calma delle forme nasce dal punto di mira del fotografo che genera sensi ossimori e inserti stranianti.
Pino Pavone analizza il simbolismo cartografico e i segni del tempo sulla mappa metallica che definisce il percorso della lama e lo sancisce come vero paesaggio. Si concentra su frammenti pestati, cumuli di rifiuti, butti, sedimenti. Il mare è lontano, una presenza quasi secondaria nel profilarsi simbolico della lama come episodio marginale del territorio. Eppure l’insieme di pozzanghere asfalto, alghe riesce a trasfigurarsi idillicamente
Michele Roberto sembra invece attratto dal gioco delle forme, come per un amorevole informalismo che privilegia l’eleganza dell’immagine pura.
Aldilà dei tentativi degli autori prevale però una sensazione di impasse: il paesaggio non riesce ad emergere con una identità forte e viene da pensare che l’immagine del presente dovrà cedere ai progetti di una tutelata ricostruzione.
Vincenzo Velati