La luce del paesaggio nelle gravine di Castellaneta
di Giuseppe Pavone
Testi di Aurelio Miccoli e Vincenzo Velati
Tra storia e natura
Qual è la ragione di questo libro? Questa la domanda cui risponderò cercando di spiegare, a parole, non certo le immagini ma alcune ragioni che le motivano e che potrebbero permettere a chi le guarda di approfondirne la lettura.
Primo elemento da considerare è la genesi: non si tratta di un reportage nato da una committenza precedente. Non c’è la spinta iniziale di un Ente del turismo o di una Pro loco. Il libro, come è chiaro, vede la luce per la costanza del suo autore e per volontà degli amministratori del comune di Castellaneta, ma all’inizio c’è la riuscita culturale e organizzativa di un progetto nato nella scuola che faceva parte di un piano integrato di istituto compreso nel Piano Operativo Nazionale 2007 – 2013 del Fondo Sociale Europeo. Con sbrigativa sineddoche il mondo della scuola chiama queste attività “Pon”. In questo periodo, in cui tanti non perdono occasione per screditare l’uso dei fondi europei, è giusto riconoscere la qualità del lavoro e citare l’humus da cui è nato.
Il libro non è celebrativo. Non ci sono foto ricordo e pose d’obbligo, ma nella densità di queste immagini si può leggere lo spessore di una esperienza reale in cui si sono fuse competenze diverse. Ricordo solo, rapidamente, che nell’anno scolastico 2008 - 2009, periodo in cui ero presso l’Istituto Quinto Orazio Flacco di Castellaneta, la scuola realizzò un progetto di conoscenza del territorio comunale (con titolo “Terre delle Gravine” e codice identificativo F-2 FSE 2008 – 104) che consisteva in un certo numero di escursioni - guidate da esperti del territorio, naturalisti e storici - precedute e finalizzate da un corso di fotografia di paesaggio condotto da Pino Pavone.
L’esperienza fu molto coinvolgente e si creò un gruppo di studenti, professori, esperti che camminava all’aria aperta e cresceva, culturalmente, insieme. A conclusione fu realizzato un convegno, con una mostra, e fu pubblicata, grazie al sostegno dei Lions, una cartina topografica, che permise di documentare il percorso formativo e di arricchire il carnet delle pubblicazioni su Castellaneta e il suo territorio con uno strumento fino ad allora mancante, ove erano riportati i sentieri e gli itinerari praticati.
Le foto di Pino Pavone sono nate allora, durante le escursioni e nelle occasioni di approfondimento culturale con gli esperti e gli studenti. Si sono arricchite, in seguito, con una campagna personale di ulteriore rilevazione e approfondimento.
Quel che dà valore al libro non è comunque la semplice documentazione delle emergenze ambientali e naturalistiche, già molte volte riprese e pubblicate da vari autori. Importano i valori formali e strutturali delle immagini, che dimostrano peraltro la crescita autorale di Pino Pavone.
Da questo intreccio di livelli nasce la necessità del volume e si giustifica anche il mio discorso. Della documentazione sul territorio di Castellaneta non dirò: numerosi sono gli autori che vi si sono dedicati. Le immagini di Pavone, anche da questo punto di vista, sono comunque innovative, perché si diffondono non solo sugli aspetti eccezionali e spettacolari del paesaggio ma anche sull’ambiente della vita quotidiana e sulle testimonianze della cultura materiale.
L’elemento strutturale di fondo che colgo nelle immagini è il voler cercare, volta per volta, l’equilibrio compositivo tra le forme organiche della natura, i segni antropici e le costruzioni geometriche della storia. Si definisce così il carattere dei grandi solchi delle gravine come presidi della natura, elementi insormontabili e non cancellabili che limitano l‘appiattimento del territorio a supporto dell’urbanizzazione e dello sfruttamento naturale: la riduzione a semplice suolo. Le emergenze geologiche, per il loro stesso esistere e per la grandiosità che le caratterizzano dialogano con le forme geometriche delle opere ingegneristiche che le accompagnano e le valicano: i ponti, i tracciati, le rotaie. Acquistano anche senso particolare le grotte, i punti di vista sotterranei, gli archi naturali e artificiali che segnano i percorsi, le scritte antiche e i ruderi recenti, i grandi alberi e le pozze fangose. Immagini che sono nate dall’essersi calati concretamente nel paesaggio.
In queste foto quello che ci prende di più è la capacità di superare l’opacità superficiale di chi fotografa senza capire, di chi non conosce e non sa cogliere i dettagli per ricostruire il senso di quello che vediamo. Provo a ragionare in negativo. Il limite e l’irrilevanza di tante foto è infatti nella ignoranza che sta dietro l’occhio: quando da immagini, anche ricercate, traspare la velleità di voler rappresentare senza aver voluto conoscere.
Nelle foto allora disturba che siano sullo stesso piano il significativo e l’insignificante, la rinuncia alla penetrazione intellettuale e alla puntualità dello sguardo, la consegna ai meccanismi dell’ottica e dei sensori. Sono quelle immagini che si potrebbe definire “retiniche”e impressionistiche, fatte da lontano e di corsa.
Nelle foto di Pavone, nel confronto con il paesaggio di Castellaneta, così mosso e segnato ma anche concretamente produttivo e vivo, emerge invece in ogni inquadratura la reciproca influenza di storia e natura. Questo carattere analitico e dialogico è il frutto di una sensibilità spontanea e del talento di chi sa come si producono belle immagini, ma, ancor più, dei risultati conoscitivi delle escursioni scientificamente fondate e, ancor prima, di un’idea meditata e consapevole della fotografia di paesaggio contemporanea.
Esiste una illusione ingenua, in tutti campi, che nasce dalla convinzione che sia possibile ottenere risultati senza la necessità di elaborare un pensiero sul proprio agire e sui propri registri espressivi. Il fotografo, in più, rischia di farsi ingannare dalla potenza tecnologica del suo armamentario e dalla profusione di immagini che può realizzare.
La fotografia di paesaggio contemporanea ha in Italia una tradizione alta e teoricamente limpida, affermatasi a metà degli anni ottanta del secolo scorso, con la quale ci si deve necessariamente misurare se si vuole essere autori. Elementi fondamentali di questa ricerca sono, tra gli altri, il rifiuto del tragico e del pregiudizio ideologico, la volontà di comprendere le ragioni culturali e affettive di ogni segno simbolico e decorativo, il desiderio di cogliere negli ambienti la fusione di uomini e cose, la flagranza della dialettica tra dati spaziali ed esperienze vitali, e, infine, la piena consapevolezza della pregnanza dell’assenza della figura umana, quando si fotografino contesti antropizzati da secoli, ricchi di storia. Questi elementi costitutivi che sto cercando di riassumere non sono prescrizioni teoriche a priori: non c’è un testo sacro a cui riferirsi. Sono alcune delle costanti di poetica che emergono dall’osservazione delle foto dei migliori autori italiani degli ultimi trent’anni. Chi sfoglia questo libro provi ad analizzare le immagini e noterà come nelle foto di Pavone operino in sottofondo queste linee di ricerca estetica e narrativa.
C’è oggi, tra i più giovani, chi dice che fotografando il paesaggio c’è il rischio dell’idillio e della cartolina consolatoria. Potrebbe anche essere, ma certo non in questo caso e comunque l’antidoto non è ridare fiato alle sirene del realismo neorealista e al trucido sentimentalismo del genere “brutti, sporchi e cattivi”. Per troppi anni l’immagine del mezzogiorno è stata realizzata andando alla ricerca dell’abominevole. Il senso del sociale, nella fotografia contemporanea, non può più affidarsi alla fisiognomica e al gesto enfatico. Si lascino queste componenti al racconto televisivo, ai reality, alla messa in scena pubblicitaria, al buonismo terzomondista di chi aspira, per questo, alla patente di artista.
Alla immagine ferma della fotografia di paesaggio e alla sua ricchezza informativa e documentaria si lasci il campo della riflessione sul senso e sulla storia.
In ultimo una considerazione finale. Un paesaggio diventa tale se c’è qualcuno che lo descrive e lo definisce: in questo libro possiamo assistere ai tentativi di costruzione di un paesaggio. Pavone definendo le immagini, ritagliando i punti di vista e organizzando il discorso con la giustapposizione delle singole foto restituisce l’aspetto complesso del territorio. Con la fotografia è possibile riunire olisticamente i punti di vista separati del naturalista, dell’archeologo, dello storico e dell’escursionista in un insieme coerente e leggibile. Partendo dal libro è possibile una attiva contemplazione del paesaggio. Uso queste parole non a caso. Voglio richiamare un fondamento etimologico: il gesto inaugurale del sacerdote antico che con il bastone ricurvo della cerimonia tracciava in cielo il cerchio di osservazione del volo degli uccelli (il templum). Così il fotografo che opera con sapienza definisce, con il suo obiettivo, una zona della realtà che bisogna osservare significativamente, e ci invita a farla nostra “contemplandola”, facendone parte e vivendo la pienezza dell’esperienza estetica del paesaggio che non può che essere attiva e personale.
Vincenzo Velati