Herbarium
di Giuseppe Pavone
testi di
Lino Angiuli, Dino Borri, Enzo Velati
PROFILO DELL’OPERA
Immagini di erbe selvatiche, tra crepe di pietre e cemento
di periferia urbana, con testi poetici di Lino Angiuli.
Herbarium è abbassare un po’ lo sguardo e trovarsi di fronte a uno straordinario mondo vegetale, guardare un filo d’erba che anima i bordi delle strade della nostra periferia, contemplare un germoglio, indistinguibile nel contesto del paesaggio urbano, in grado di guardare il mondo dal basso verso l’alto, osservare la natura che emerge dall'asfalto e dal cemento desiderosa di sopravvivere in un ambiente ostile.
«Pavone si fa botanico sui marciapiedi, gira ai margini della città; non contempla dall'alto in basso, come il passante distratto, ma si piega all'altezza dell'erba e ritrae le singole piante come personaggi di storie di vita» (V. Velati).
Figure a fronte
Vincenzo Velati
Erbario è una parola non lieve, culturalmente impegnativa, quasi come museo. Un tempo si chiedeva a pittori e disegnatori specializzati di ritrarre un tipo vegetale senza farne un ritratto individuale, si aspirava alla forma, all’idea di una pianta. Questo approccio, in realtà filosofico, cui dobbiamo, nell’età delle scoperte geografiche, splendidi volumi illustrati e monumentali decorazioni affrescate, ha poi ceduto il passo alle raccolte sistematiche di singoli esemplari: veri tesori di conservazione che hanno attraversato i secoli e sono opere d’arte da tutelare e salvaguardare. Parte della scienza moderna nasce con la raccolta sistematica e la catalogazione delle piante e saper produrre un erbario è oggi una competenza, dettagliatamente codificata, che si richiede agli studenti di botanica; ma noi qui usiamo la parola per altri intenti.
Questa raccolta di parole e immagini non nasce da voglie scientifiche. Neppure è un archivio di memorie e ricordi, un insieme di tracce fisiche che richiamino emozioni e incontri. Non pensate ai fiori pressati, ritrovati tra le pagine di un libro dopo anni di oblio, testimoni di momenti di incanto sentimentale. I nostri esemplari sono rigogliosi, desiderosi di esistere: non vengono da passeggiate in campagna ma da crepe di strade di periferia, tra pietre e cemento.
Certo non si resiste alla voglia di dare loro un nome preciso, carico di ancestrale latinità, ma il nome è venuto dopo, per postuma curiosità, non è il frutto di una sistematica intenzione originaria. I nomi che contano sono invece quelli comuni, che vengono sulle labbra spontaneamente. Difficile però sostenere che ci sia un rapporto di servizio tra le parole e le immagini. Leggendo i versi e vedendo le foto non nascono convergenze ma paralleli: direi che Angiuli e Pavone procedono separatamente con i loro demoni particolari per strade diverse. Lontani dalle immagini incantate dei giardini l’uno, quanto dal profumo letterario dell’alloro e dei limoni l’altro.
Angiuli vaga in un dizionario di affezione, con l’orecchio rivolto a categorie di sentimenti evocate da nomi appena mormorati; affila la penna tra i fruscii labiali delle parole, usa i versi come spilli, per fermare, con le emozioni sonore, immagini lontane e ripetute, come riti di una socialità rimpianta.
Pavone si fa botanico sui marciapiedi, gira ai margini della città; non ha lo sguardo rapace del fotografo da reportage, in cerca di avventure dello sguardo, non contempla dall’alto in basso, come il passante distratto, ma si piega alla altezza dell’erba e ritrae le singole piante come personaggi di storie di vita, organizzando un sistema di forme che valorizzano lo sfondo: se fosse stato importante fotografare le piante, da sole, meglio sarebbe stato farlo tra i prati, magari ai margini di strade campestri. Invece la scelta del marciapiede è fondamentale perché conferma il paesaggio urbano come centro della ricerca. Il punctum è il rapporto tra le costruzioni e la vita naturale, tra paesaggio artificiale e natura spontanea, tra singole piante e costruzioni. Quel che conta è la città e la relazione con essa e il linguaggio della fotografia, naturalmente, che, come sempre dovrebbe, si interroga sul suo essere e sulla sua capacità di definire lo sguardo.
L’insieme funziona, la ricerca e l’incontro sono fruttuosi e Pavone e Angiuli si accompagnano delicatamente, da lontano, ognuno con il suo territorio di senso tra immagini e parole.
Ora lo sguardo…
Dino Borri
Ora lo sguardo si posa su una piccola erba misteriosa per le persone della città, abituate all’artificiale o al più alle piantine di serra del vivaio del fioraio. La foto inquadra una vita minima, quasi indistinguibile nel contesto di una pavimentazione o installazione urbana, che evidentemente si ostina a sopravvivere in un ambiente alieno e ostile. Via via si sviluppa una microscopica visione corale, per certi versi sinfonica, fatta di vite e colori differenti che animano anfratti e margini dell’ecosistema artificiale-naturale della città, che esprimono anzi una biodiversità tanto più ricca quanto più si sia in luoghi inadatti ai nostri transiti e usi più comuni di abitanti umani di città e territori. Il paesaggio verde produttivo e operoso ancora tante volte concettualizzato in analisi e sguardi convenzionali quale esito della virtuosa interazione sociale tra umanità e natura subisce una metamorfosi che è al tempo stesso intrigante torsione di punto di vista nell’evidenziare una rivendicazione di minimalità, fragilità, non-utilità, che avanza da viventi posti in nuovi territori e margini di transizione, in nuove storie di nuove comunità.
Lo sguardo rifugge quasi ostentatamente dai paesaggi eroici, colti da lontano, in ampie inquadrature, cui ci ha abituato per esempio la fotografia americana del primo secolo XX o dai drammatici ambienti della crisi sociale-ambientale degli anni più recenti, per privilegiare un approccio di stampo apparentemente cognitivista che sembra inseguire le radici minime e profonde della crisi attuale indotta dalla tecnologia in un more than human world. Sembra lontano, appartenente a un’altra stagione dello sguardo e dello spirito, il lavoro di stampo invece costruttivista in cui le infrastrutture urbane e territoriali si fanno parte attiva di una armoniosa modificazione artificiale del paesaggio naturalistico.
Resta, come sempre, forte, la intrigante e rilevante dimensione del tempo, attraverso la costruzione di cui lo sguardo è capace di un originale fluire, fatto di visioni e eventi che articolano storie stratificate su differenti livelli di astrazione e di attesa.
La rivincita del cardo
Lino Angiuli
Generalmente le periferie vengono da noi scansate perché la loro presenza ci costringe a fare i conti con la nostra assenza: nei paraggi del loro limbo l’occhio si disorienta, lo spazio si deforma, il tempo si annacqua, mentre il silenzio assedia le meningi, pensieri randagi bussano all’orecchio e la solitudine ha l’alito pesante. Contemporaneamente, avvertiamo il risucchio del centro e dei centri, quali che siano, per sentirci, appunto, ‘centrati’ e in compagnia, per poter scorgere il nostro volto in quello dei nostri simili, il che ci rassicura non poco e permette all’io di restare a galla, a costo di andare a cacciarci in uno di quegli spazi che Marc Augé chiamerebbe non-lieu.
Eppure, grazie a qualche cane spatriato e a non pochi “rifiuti solidi urbani” (eufemismo!) sfuggiti al controllo della civiltà, la periferia rimane, a suo modo, il luogo di interessanti scoperte: frequentandola e tenendo a bada la voglia di scappare, sostandovi e ascoltando le parole dell’aria o i racconti della luce, potremmo affacciarci su alcune istruttive, ancorché sgradevoli, verità (personali, sociali, culturali): quelle verità che questo viaggio di Pino Pavone riesce a offrirci per mezzo del suo occhio fotografico, da tempo allenato a cogliere la punteggiatura minima della sintassi paesaggistica mentre essa va mutando sotto i nostri occhi e alle spalle della nostra consapevolezza percettiva.
Tanto per cominciare, potremmo scoprire che tra regno umano e mondo vegetale non c’è armistizio né vigono usanze di buon vicinato, perché i “regnicoli” sono oltremodo abituati ad abusare del loro predominio e a imporre le propria dura lex; essi si cibano con non chalance di azzurro e di verde, trangugiano metriquadri e metricubi, fino a produrre metastasi urbane bulimiche e irragionevoli: ce lo spiega bene quel cespuglio lì, che un tempo fu ulivo, o quel pagliaio diroccato che non ospita più i ferri della fatica contadina. La “civiltà” avanza senza guardare in faccia mandorli e tendoni perché lo show del mattone must be go on ad ogni costo. A proposito di mattone e di costi, potremmo anche scoprire che, in fin dei conti, i signori geometri ingegneri architetti avrebbero potuto regalarci qualcosa di meglio di questi tisici paesaggi e che non dovrebbero menare vanto delle proprie trovate architettoniche e urbanistiche, se è vero che uno di loro, Renzo Piano, ha preso a raccomandare di «rammendare le periferie»!
A questo punto, scoprendo scoprendo, potrebbe assalirci un rimpianto o, peggio, un senso di colpa nei confronti di un muretto a secco morto di mala morte o di certi manufatti chiamati sostituzioni (altro eufemismo!) o di certe improbabili nuances cromatiche che prendono a pugni il contesto.
Se la nostra sosta si facesse più attenta fino a sfiorare la meditazione, a dirci chiaro e tondo le cose come stanno potrebbe essere una cicoriella, una borsa del pastore, una ruchetta e altre verdi presenze accampate alla ben meglio qua e là per sbandierare la voglia di sopravvivenza a dispetto dell’asfalto e del cemento che non a caso dicesi “armato”. Sono i presidi creaturali che con fare discreto mantengono il punto al posto di nespoli vigne limoni, passati a miglior vita dopo essere stati sconfitti, in una lotta impari, da un esercito di gru betoniere tondini, armati ‒ per l’appunto ‒ fino ai denti.
Sono le stesse presenze alle quali, durante un’acuta e originale perlustrazione, Pavone ha dato la parola, dopo averle messe nella condizione di guardare il mondo dal basso verso l’alto.
In tal modo, insieme a loro, Pino ci rammenta che l’antropocentrismo è malattia culturale da cui bisogna cercare di guarire, se non vogliamo essere chiamati a pagare un salato redde rationem. Ci rammenta che la formulazione “l’uomo e la natura” è oltremodo scorretta, perché su quella e congiunzione va fatto calare l’accento del verbo essere, se si vuole riequilibrare una relazione fin troppo sbilanciata. Ci rammenta che una civiltà è matura se si sforza di tradurre uno scontro in incontro, ponendosi dalla parte del polo più debole, così com’egli ha fatto assumendo il punto di vista di un sivone o di una spaccapietre, mettendosi dalla parte di una piscialucertola o di umile sterpo senza nome (una sorta di milite ignoto!): coraggiosi avamposti di un eco-pensiero, presenze coinquiline e confinanti, capaci di dirci nella loro lingua che l’uomo non è, come spesso crede, il padrone del mondo bensì un suo semplice ospite, alla stregua di quel volitivo cardoncello o di quel testardo asparago, spintisi a coniugare a memoria il verbo risorgere proprio lì, in faccia alla presunzione umanoide, a due passi dalle sue “magnifiche sorti e progressive”!
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