Gli spazi del futuro
a cura di Giuseppe Pavone e Vincenzo Velati
Arrivati al quarto anno di lavoro per l’èquipe di Pino Pavone e dei suoi ospiti si potrebbe anche cedere alla tentazione di ipotizzare bilanci, ma proprio non è il caso tanta è la freschezza delle immagini e del lavoro, nel suo insieme. Questo anno poi ci si misura con il futuro e grazie alla presenza di un grande cantiere che attraversa il territorio cittadino si può scientemente rinunciare alle nostalgie dei segni del passato e alle tentazioni dell’idillio.
Quel che è ormai chiaro è che grazie alla continuità e alla tenacia di Pino Pavone e dei suoi amici è nato un collettivo. Un gruppo di operatori che ha intenti comuni e che seriamente riflette sulle immagini, sul rapporto della fotografia con il territorio e con la percezione che ne hanno i suoi abitanti. Un gruppo di fotografi che non si pone solo problemi di stile quanto piuttosto riflessioni sulle procedure e che si dà una disciplina di docilità al confronto e alla critica.
In tempi di esasperata aggressività verbale, in cui il favore del pubblico e dei potenti premia i teppisti mediatici e gli squadristi cartacei c’è da consolarsi. Forse è un merito della fissità della immagine fotografica che costringe alla razionalità della composizione, nel momento dello scatto, e poi alla visione meditata e profonda. Vorrei sottolineare questo aspetto lento del la fotografia che non comporta per necessità freddezza emozionale ma che positivamente accentua i caratteri di slittamento dalla logica del consumo convulsivo del video e delle immagini elettroniche in movimento, provvisorie, evanescenti, inafferrabili.
Nella edizione di questo anno i caratteri di permanenza della fotografia di paesaggio sono accentuati dalla scelta di un tema forse difficile. Gli “spazi del futuro” di fatto sono recinzioni metalliche, pozzanghere, tracce di camion, plastiche abbandonate, scarpate di terra e di ghiaia con colori accesi e innaturali. Eppure da questo contesto provvisorio e sgraziato fioriscono immagini dense e sensibili. Nicola De Napoli compone piani di fuga che valorizzano nebulose profondità prospettiche affidate al colore e alle striature del cielo. Mario Palmisano valorizza, oltre le quinte arboree, le lontane presenze delle gru, dei tralicci e dei pali metallici come metafisici personaggi costruenti. Incoronata Ippolito registra segni protagonistici, per valori geometrici e cromatici in primo piano e usa il paesaggio come sfondo dandoci immagini di grande impatto formale. Francesca Loprieno mette in relazione i cumuli di terra con il lontano fondo urbano o esalta la salita di una duna di terriccio verso il cielo e l’orizzonte, costruendo così immagini che sono cariche di un argomentato senso esistenziale e restituiscono sapori di installazione land-art. Michele Roberto ricerca nella banalità periferica di una pozzanghera riflessi insospettati, esalta gli accenti giocosi e stranianti delle immagini spontanee e delle forme eccentriche, il gioco semantico tra parole e immagini, funzioni e colori. Ninni Castrovilli contempla dal ciglio di un’altura artificiale la sopravvivenza stupefatta di una profanata organizzazione territoriale. Michele Carella abbassa il suo punto di vista fino a nobilitare, con il riflesso del cielo, le pozze di acqua piovana per tracciare linee di discontinuità tra nuvole, terra, acqua, vegetazione e cavi elettrici. Rocco Fazio si muove con circospezione e sceglie come tema il dialogo formale tra textures e margini frastagliati o tra recinzioni e strade. Simona Scanni è attratta dalle lacerazioni dei lembi e dalle sopravvivenze naturali, ha un’idea drammatica del territorio. Ma ci sono anche presenze diverse, sensibilità particolari: Alfio Cangiani gioca con le parole impaginando costruttivamente i suoi versi sui muri di un palazzo e cercando un mandato sociale e visibile anche per la poesia. Franco Altobelli raccoglie i valori cromatici del paesaggio e li compone matericamente intensificandoli. Carlo Dicillo rielabora le sue amate plastiche e i materiali innovativi così tattilmente spugnosi e coinvolgenti. Makis Vovlas gira invece nell’antico tessuto urbano, è interessato più degli altri alle tracce della socialità e mette a confronto i segni della antica tradizione abitativa con la presenza degli interventi di qualificazione urbana; la geometria del nuovo accompagna le forme organiche della natura, i nodosi alberelli, il disporsi dei corpi, le tracce della religiosità popolare, la consunzione dei materiali. Pino Pavone dà forma e guida al gruppo ma ai compiti operativi e di coordinamento aggiunge una sensibilità narrativa che gli permette di orientare il lavoro e di promuoverne la qualità collettiva. Nelle sue fotografie esprime un sentimento vitalistico, plastico e tumultuoso dell’immagine, così che le dune sembrano prendere vita e respirare in maniera primordiale.
Gli studiosi del paesaggio, nel tentativo di trovare una definizione il più possibile accettabile di un concetto moderno e plurale, hanno stabilito che un paesaggio nasce dall’interazione tra i dati reali e la percezione di un gruppo sociale. Io credo che, con qualche anticipo sul grande pubblico che mostra comunque interesse e sensibilità, si sta con queste operazioni fotografiche costruendo un senso del paesaggio attento al territorio in tutti i suoi aspetti. L’idea di chiamare fotografi di sensibilità e storie diverse a Triggiano è una operazione di lungo respiro che sta costruendo anche una comunità di “paesaggisti”. Certo è che giovanissimi fotografi stanno affinando consapevolezze culturali ed operative interessanti, meditate e profonde. Potrà nascere da qui una “scuola” ? Avanzo un affettuoso augurio.
Vincenzo Velati
Quel che è ormai chiaro è che grazie alla continuità e alla tenacia di Pino Pavone e dei suoi amici è nato un collettivo. Un gruppo di operatori che ha intenti comuni e che seriamente riflette sulle immagini, sul rapporto della fotografia con il territorio e con la percezione che ne hanno i suoi abitanti. Un gruppo di fotografi che non si pone solo problemi di stile quanto piuttosto riflessioni sulle procedure e che si dà una disciplina di docilità al confronto e alla critica.
In tempi di esasperata aggressività verbale, in cui il favore del pubblico e dei potenti premia i teppisti mediatici e gli squadristi cartacei c’è da consolarsi. Forse è un merito della fissità della immagine fotografica che costringe alla razionalità della composizione, nel momento dello scatto, e poi alla visione meditata e profonda. Vorrei sottolineare questo aspetto lento del la fotografia che non comporta per necessità freddezza emozionale ma che positivamente accentua i caratteri di slittamento dalla logica del consumo convulsivo del video e delle immagini elettroniche in movimento, provvisorie, evanescenti, inafferrabili.
Nella edizione di questo anno i caratteri di permanenza della fotografia di paesaggio sono accentuati dalla scelta di un tema forse difficile. Gli “spazi del futuro” di fatto sono recinzioni metalliche, pozzanghere, tracce di camion, plastiche abbandonate, scarpate di terra e di ghiaia con colori accesi e innaturali. Eppure da questo contesto provvisorio e sgraziato fioriscono immagini dense e sensibili. Nicola De Napoli compone piani di fuga che valorizzano nebulose profondità prospettiche affidate al colore e alle striature del cielo. Mario Palmisano valorizza, oltre le quinte arboree, le lontane presenze delle gru, dei tralicci e dei pali metallici come metafisici personaggi costruenti. Incoronata Ippolito registra segni protagonistici, per valori geometrici e cromatici in primo piano e usa il paesaggio come sfondo dandoci immagini di grande impatto formale. Francesca Loprieno mette in relazione i cumuli di terra con il lontano fondo urbano o esalta la salita di una duna di terriccio verso il cielo e l’orizzonte, costruendo così immagini che sono cariche di un argomentato senso esistenziale e restituiscono sapori di installazione land-art. Michele Roberto ricerca nella banalità periferica di una pozzanghera riflessi insospettati, esalta gli accenti giocosi e stranianti delle immagini spontanee e delle forme eccentriche, il gioco semantico tra parole e immagini, funzioni e colori. Ninni Castrovilli contempla dal ciglio di un’altura artificiale la sopravvivenza stupefatta di una profanata organizzazione territoriale. Michele Carella abbassa il suo punto di vista fino a nobilitare, con il riflesso del cielo, le pozze di acqua piovana per tracciare linee di discontinuità tra nuvole, terra, acqua, vegetazione e cavi elettrici. Rocco Fazio si muove con circospezione e sceglie come tema il dialogo formale tra textures e margini frastagliati o tra recinzioni e strade. Simona Scanni è attratta dalle lacerazioni dei lembi e dalle sopravvivenze naturali, ha un’idea drammatica del territorio. Ma ci sono anche presenze diverse, sensibilità particolari: Alfio Cangiani gioca con le parole impaginando costruttivamente i suoi versi sui muri di un palazzo e cercando un mandato sociale e visibile anche per la poesia. Franco Altobelli raccoglie i valori cromatici del paesaggio e li compone matericamente intensificandoli. Carlo Dicillo rielabora le sue amate plastiche e i materiali innovativi così tattilmente spugnosi e coinvolgenti. Makis Vovlas gira invece nell’antico tessuto urbano, è interessato più degli altri alle tracce della socialità e mette a confronto i segni della antica tradizione abitativa con la presenza degli interventi di qualificazione urbana; la geometria del nuovo accompagna le forme organiche della natura, i nodosi alberelli, il disporsi dei corpi, le tracce della religiosità popolare, la consunzione dei materiali. Pino Pavone dà forma e guida al gruppo ma ai compiti operativi e di coordinamento aggiunge una sensibilità narrativa che gli permette di orientare il lavoro e di promuoverne la qualità collettiva. Nelle sue fotografie esprime un sentimento vitalistico, plastico e tumultuoso dell’immagine, così che le dune sembrano prendere vita e respirare in maniera primordiale.
Gli studiosi del paesaggio, nel tentativo di trovare una definizione il più possibile accettabile di un concetto moderno e plurale, hanno stabilito che un paesaggio nasce dall’interazione tra i dati reali e la percezione di un gruppo sociale. Io credo che, con qualche anticipo sul grande pubblico che mostra comunque interesse e sensibilità, si sta con queste operazioni fotografiche costruendo un senso del paesaggio attento al territorio in tutti i suoi aspetti. L’idea di chiamare fotografi di sensibilità e storie diverse a Triggiano è una operazione di lungo respiro che sta costruendo anche una comunità di “paesaggisti”. Certo è che giovanissimi fotografi stanno affinando consapevolezze culturali ed operative interessanti, meditate e profonde. Potrà nascere da qui una “scuola” ? Avanzo un affettuoso augurio.
Vincenzo Velati